Agguato alla luce

opera performante in Giuseppe Portella 

La luce è da sempre un fattore determinante nell’opera d’arte.

La pittura ne ha indagato ogni effetto versatile e avvalorante  sulla mobile vicenda delle linee, delle  forme e dei colori.

La scultura rivela la sua dote cangiante e trasformativa a seconda di come è illuminata: da quale fonte, da quale versante.

La fotografia è un dono della luce, catturata da un retaggio a lei sensibile.

In tutti questi casi resta intangibile  la questione se la luce  entri nell’opera come fattore o elemento esterno, se la irradi oppure le appartenga come insorgenza e proprietà interna.

Se essa sia aggetto materiale, scoria o rimando trascendente, corpo o fenomeno.

La luce delle cui proprietà la scienza va  elaborando ulteriori  teorie, resta dunque interpretabile, usufruibile nell’opera anche se incatturabile in sé.

Su tale snodo di appartenenza e di proprietà pur nella ineffabilità della luce nell’opera si attesta l’indagine di Giuseppe Portella.

Il suo lavoro consiste nel progettare un agguato alla luce, il cui esito è un approccio declinato nell’opera che fin dall’inizio sa di non poter essere definitivo.

Una cattura che si dà nel tempo e in un intervallo di tempo appare e affievolisce sino all’esaurimento.

Le opere di Portella sono resine a cui l’artista ha conferito una qualità sensibile alla luce e che poi, nel buio, rilasciano la luce incamerata in una luminescenza che va da un massimo di nitore fino alla scomparsa.

L’opera consiste pertanto in una trappola perfomante con cui l’artista, utilizzando il suo materiale d’elezione – la resina – le conferisce una qualità fotosensibile che alimentandosi di luce e di questa caricandosi, una volta al buio la restituisce tramite le sue stesse forme plastiche e figurali, a loro volta trasformate dalla proprietà luminosa che hanno temporaneamente incamerato.

Si tratta di una apparizione splendente ma in cui è insito un meccanismo crepuscolare, dato che la limpidezza luminosa della prima fase, quella appena conseguente all’immersione, nel buio va via via scemando, affievolendosi sino all’invisibilità.

L’incontro incamerante della luce è quindi a termine e contiene con l’approccio anche un addio alla luce stessa, che pur attestata resta incatturabile.

In questo aspetto performante consiste il fascino dell’opera di Portella, che in forme semplici – segni, tracce, pianeti, alfabeti oppure simboli e ideogrammi, o ancora arredi e suppellettili – si occupa primariamente dell’inafferrabilità del fattore luminoso, della sua temporanea condiscendenza alla materia, che intride e trasforma nella sua misteriosa relazione con il tempo, della valorazione metaforica che infine assume in riferimento alla condizione vitale e alla finitezza degli esseri e delle cose.

Come esseri e cose sono materia e trascendenza, così le forme di Portella sono opera materiale e deroga spettrale, oggetti e incandescenze, corpi e scie, visioni e tracce.

L’opera vive quindi due vite plastiche: una forma pittorico/scultorea visibile a illuminazione piena e una forma trasformata,  che appare solo come restituzione luminescente nel buio. Ma soprattutto l’opera  vive di quell’atto performante che traghetta nel suo intervallo l’intera procedura dalla visibilità diurna dell’opera-oggetto alla sua rivelazione luminescente, al suo progressivo affievolirsi sino al totale riassorbimento nel buio. Ed è  questo transito che  da sorprendente rende  poi interessante e profonda la meditazione luminosa di Portella, la sua ostinazione artigiana a produrre, nella stessa chimica del procedimento tecnico e nella manualità paziente delle sue applicazioni alla resina, una sorta di mondo periodico che nell’apparizione stupefacente pulsa dal buio delineando, come in una macroinstallazione, un habitat  ulteriore fra astri e oggetti, tavoli e planetari, orbite e spirali, sigle e vertigini, bagliori e buchi neri.

L’artista offre così al visitatore alloggio temporaneo entro una visione stuporosa, sorta dalla naturalezza con cui  queste opere, per la loro stessa virtù di luminosità intermittente,  non possono che darsi al buio e produrre pertanto una revisione integrale dello spazio espositivo, ridisegnandone lineamenti, volumi e  rapporti e chiamando il visitatore a un’esperienza nuova, a un’immersione inedita.

La suggestione funzionale insita in  questa tecnica, a partire dalla doppia mano del suo artefice – artigiano della resina e artista della stessa materia, caricata di una proprietà segreta –  e dal suo impatto trasformante sullo spazio, allude al design e forse attende una più ampia scoperta e applicazione  nel campo dell’arredo, dell’architettura  e della comunicazione ma nella mostra non può che cedere alla debacle dell’arte, offrendo nella tenebra, per gli occhi  dei visitatori  sbarrati di fronte a un mondo mai visto di brillanti forme che creano stupore.